up close and personal

Il giardinaggio come metafora della vita.

8 Aprile 2015

Post giardinaggioNonostante il week end di Pasqua ricordasse più novembre che aprile, il cielo e il tepore mi hanno suggerito che la primavera sta davvero arrivando e, come ogni primavera, ho iniziato il trasferimento delle piante dal Jardin d’hiver delle scale ai balconi, non senza seminare qualche vittima per strada: a volte è il geranio, spesso il rosmarino, quasi sempre la lavanda a restare decimata sotto le impazienti mani con ben poco pollice verde.

Sistemando i vasi, come le altre volte, non ho potuto fare a meno di pensare a cosa fare di una enorme Kalanchoe che mi segue di casa in casa, che resiste agli attacchi del clima e della mia imperizia: è una pianta non bellissima, che raramente fa fiori, di grandi dimensioni, contorta, impolverata, pesante nel suo vaso scomodo da trasportare. Nonostante le scarsissime cure che le dedico è con me da tanto di quel tempo che, seppur con tutti i difetti e le sue limitate performances di pianta, non ho il cuore di gettarla né di darla via per fare spazio a qualche bella specie colorata e di grande impatto che decorerebbe il mio balcone in modo molto più elegante. Persuasa del fatto che ogni creatura del regno vegetale, come di quello animale, abbia uguale diritto di esistere, l’ho sempre lasciata vivere lì con le sue poche pretese.

Ma da quest’anno, ormai si sa, molto è cambiato dentro di me: cercando di combattere ogni pigrizia mentale di cui sono stata vittima finora e provando a guardare le cose da prospettive sempre diverse, mi sono decisa ad armarmi di forbici e pazienza e ho cominciato a ristrutturare la povera Kalanchoe. Mentre tagliavo, sistemavo, ripulivo dalle foglie secche, pensavo a questa cosa di tagliare i rami: a volte li si lasciano attaccati perché -chi può dirlo?- magari quell’unica fogliolina ancora leggermente verdognola riuscirà a ricrescere, a figliare.

Dare un taglio netto fa sentire come se si vanificasse una seppur remota possibilità di aggiustare quello che è già palesemente compromesso.
Volete sapere la verità?
Bisogna tagliare.
Anche sacrificando la fogliolina, il ciuffetto un po’ malmesso.
Recidere definitivamente, eliminando magari una piccolissima parte buona.
Ma se non si elimina con un certo criterio e con un po’ di spietato senso della realtà, come si può sperare di permettere all’intera pianta di respirare?

E come respirava, giuro! Ad ogni potata credevo di infliggerle del dolore perché le toglievo qualcosa, invece percepivo i suoi profondi sospiri di liberazione: probabilmente resterà sempre una pianta non bellissima, di grandi dimensioni, contorta, pesante e scomoda, seppur un po’ meno impolverata e con una chance in più di fiorire quest’anno… ma adesso è svincolata dalle costrizioni del passato e quindi potenzialmente libera di diventare anche una pianta stupenda.

(don’t look back, you’re not going that way)

LdC

PS: la pianta dell’immagine è a puro scopo dimostrativo e non è neanche mia, bensì di Donna Franca. Nessun vegetale è stato maltrattato per la realizzazione di questo post.

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