dialoghi surreali | un po' di sano cinismo

La notte è un pazzo con le mèches.

5 Aprile 2010

Partiamo da un presupposto: se i posti ai concerti venissero assegnati in base alla meritocrazia, probabilmente avrei dovuto sedermi in braccio al pianista di Sergio Caputo, alcune sere fa al Bravo Café.
Ma, ahimè, i sogni muoiono all’alba e difatti i miei si sono infranti contro il muro composto da alcune figure di cui avremmo fatto tutti volentieri a meno.

Tralasciando la balotta etilica della pseudocantante salita alla ribalta per una misera canzone regalatale da un mito della musica italiana (non farò nomi neanche sotto tortura); tralasciando la parruccona su tacco quindici che si è nutrita solo di ananas e the per tutta la serata, facendomi una tristezza che le avrei allungato una fetta di pane; tralasciando l’imbucato che, nell’ordine, ha scroccato: uno sgabello prenotato da altri, un tavolo prenotato da altri, tutte le patatine del buffet, i cantucci avanzati sempre da altri e infine l’ananas lasciato dalla parruccona; tralasciando la zdaura che sul Garibaldi innamorato si è dimenticata improvvisamente di essere in mezzo a gente seduta e si è alzata per dimenarsi fottendosene bellamente di tutti quelli dietro di sé…
Lasciamoci alle spalle tutta questa orribile fauna -icona di una Bologna fighetta che fa venire voglia di trasferirsi in qualsiasi altro posto del mondo più tranquillo, l’Afghanistan per esempio- per concentrarci invece sui nostri vicini di tavolo che, all’inizio del concerto (essendoci noi tutti girati di 45° est per seguire il live) sono diventati automaticamente i due davanti a noi.

Immaginate una coppia di non lungo corso, ma di comprovata esperienza
(insomma, du’ vecchi riciclati ai primi appuntamenti)
che già di suo non è bellissima da vedere
(a me il sesso in terza età fa sempre un po’ senso, scusate: limite mio).
Lui sulla sessantina, stempiato ma coi capelli tinti, a sensazione ripieno di soldi
(anche perché 60€ a testa tendono a filtrare parecchio il target – e sticazzi al Bravo Café, aggiungerei)
Lei assomigliava in modo imbarazzante alla Paola Marella di Cerco casa disperatamente, con parecchie rughe in più e con un q.i. decisamente più basso.
(a giudicare dagli argomenti)

Io dico: non è obbligatorio restare a vedere Sergio Caputo se non lo conoscete, se lo conoscete ma non lo apprezzate, se vi lascia di stucco il fatto che sia diventato un jazzista, se eravate lì solo per mangiare… insomma, non ci offendiamo se vi alzate e ve ne andate.
E invece no: sono rimasti tutta la sera a cicicici-pipipipi a mostrarsi le rispettive foto sui cellulari, a darsi amorevoli spintarelle, a sbaciucchiarsi
(ma prendersi una stanza?)
avvicinandosi e allontanandosi ritmicamente, creando davanti a noi sfortunati una specie di moto ondoso perpetuo che ricordava, almeno a me, la sensazione del mal di mare.

Ma il bello è stato quando, all’apice dell’off-topic, lei, gridando per sovrastare Caputo «ho comprato questa stoffa stampa vichy, te la faccio vedere!» sfoderando il cellulare per mostrare la foto «che penso di farmi un vestito»
(poraccio lui: che s’ha da fa’ per un po’ di sesso a fine serata)
mentre la sottoscritta, all’apice del proprio frantumarsi di balle: «Amore» rivolta verso Lorenzo «se fra dieci anni mi riduco così, ti prego abbattimi a fucilate» a un volume sufficientemente alto per carpire l’attenzione della signora, che ovviamente si è girata.
:)
«Ma anche venti».
Gioco, set, partita.

Lui, alzandosi per uscire, ha fatto addirittura un cenno di scuse.
Son soddisfazioni.

E il concerto è stato bellissimo.
LdC

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.